Art Spiegelman. Mio padre sanguina storia.
"A quel tempo ero un gran bel giovanotto" comincia a raccontare Vladek al figlio Art. Siamo ai giorni nostri, in Rego Park, nel Queens, un quartiere di New York, ma le parole del vecchio ci riportano di colpo nella Polonia degli anni Trenta. Che gli ebrei abbiano la faccia dei topi e i nazisti quella dei gatti all'inizio potremmo attribuirlo alla stramberia del cartoonist, eppure sono sufficienti poche pagine per essere travolti da un'onda emotiva rispetto alla quale dobbiamo prendere posizione. Meglio non chiedersi, in via preliminare, cosa abbiamo di fronte: un fumetto, è chiaro.
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Eppure la forza epica presente nel disegno chiama in causa la tradizione romanzesca; l'opzione radicalmente autobiografica dell'opera sfiora l'esito metanarrativo; la lingua, a volte sgrammaticata, potrebbe alludere a un testo sperimentale; il montaggio delle sequenze, nella consapevole stratificazione cronologica, fa pensare al cinema; le fotografie e i documenti d'archivio entrano dentro il racconto come materiali di un collage; la simultaneità di certe immagini, con la comparsa di finestre laterali per approfondire o precisare, sembra derivata dallo schermo del computer; le illustrazioni geografiche, minuziose quanto basta per collocare nello spazio gli eventi accaduti, parrebbero estratte dall'atlante storico; la mutevole angolazione degli occhi e delle sopracciglie dei topi, calibrata secondo l'esperienza emotiva che stanno vivendo, provoca effetti lirici.
Io ho letto Maus come un romanzo. Lo scrittore a cui ho pensato più spesso è stato Isaac Singer: non l'evocatore di spiriti e leggende yiddish, bensì l'esule americano che, davanti a un caffé bollente versato nel bicchiere di carta, in una tavola calda di Broadway, all'altezza di Riverside Park, osserva il chiacchiericcio della gente in transito. Vladek assomiglia a questo tipo d'uomo: carico di passato ma alleggerito da una speciale letizia che lo rende simpatico nonostante i suoi innegabili difetti; uno che, prima di sbarcare nel Nuovo Mondo in fuga dal Terzo Reich, ha appreso tutto il necessario sulla nostra specie, compreso quello di cui avrebbe fatto volentieri a meno. L'incredibile avarizia, che lo rende riprovevole agli occhi dei parenti stretti, rappresenta un lascito del feroce istinto di conservazione al quale deve tutto. Conosciamo la sua storia: ce l'hanno raccontata, con l'autorità del protagonista e il talento del narratore, Primo Levi, Elie Wiesel, Robert Antelme, Tadeusz Borowski, Jean Amery, David Rousset, fra gli innumerevoli altri.
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Ma qui è il figlio che vuole sapere dal padre, per filo e per segno, le dimensioni precise di quanto accaduto. Lo va a trovare nella sua casetta, in Carlton Street, dopo tanto tempo trascorso senza vederlo. Lui vive insieme alla seconda moglie, Mala: i due non vanno d'accordo. Art gli chiede di rievocare il tremendo passato. Mio padre sanguina storia s'intitola infatti la prima parte di Maus, pubblicata in volume sin dal 1973 e apparsa poi su "Raw", la celebre rivista di fumetti e grafica d'avanguardia fondata dallo stesso autore. In questo tomo inziale, composto da sei capitoli (Lo sceicco, La luna di miele, Prigioniero di guerra, Il cappio si stringe, Topi nella tana, Trappola per topi) Art Spiegelman, ascoltando il resoconto del vecchio, scopre il proprio luogo di origine, anteriore alla nascita: l'esistenza prima del caos, l'incontro con Anja, lo sposalizio, l'arruolamento nell'esercito polacco, la prigionia, l'illusoria liberazione, la stagione dei ghetti, fino alla discesa nel gorgo. Noi lettori apprendiamo le sue disavventure nel momento in cui il figlio, visualizzandole, ne comprende la portata e questo determina uno straordinario effetto poetico: ciò che in Maus soprattutto conta è l'occhio posato sul vecchio, prima ancora delle sue formidabili parole, infallibili nel sollecitare i ricordi e sconnesse, in uno strano idioma anglo-yiddish, quando risultano applicate al presente. L'operazione linguistica rappresenta il vero tesoro di quest'opera: in particolare le interiezioni (acch, nu, oy, sigh, yuuhuu), pronunciate dai sopravvissuti nella New York contemporanea, contribuiscono a caratterizzare fortemente la fisionomia dei personaggi fino a renderli riconoscibili e indimenticabili. Tutto comunque resta legato alla loro natura polimorfa.
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Per capire il significato profondo della scelta di trasformare gli uomini in animali può essere utile esaminare un precedente fumetto di Spiegelman, Prigioniero sul Pianeta Inferno. Art lo disegnò nel 1972; a quell'epoca aveva diciannove anni: da quattro la madre Anja s'era suicidata, quasi seguendo a distanza l'esempio di Tosha, sua sorella che, durante la guerra, aveva deciso di togliersi la vita e uccidere col veleno tre bambini, pur di non vederli andare al gas: fra loro c'era Richieu, il fratellino che Art non conobbe mai. I genitori lo avevano affidato a Tosha nella speranza di salvarlo dalla deportazione.
Nel Prigioniero, i cui stralci vengono citati nella prima parte di Maus, gli uomini sono uomini: il risultato è assai meno persuasivo rispetto a quando diventeranno topi e gatti (insieme ai tanti polacchi-maiali, a qualche cane-americano e due sole rane). L'animalizzazione dei personaggi libera Spiegelman dal problema del "realismo": si tratta di un dilemma decisivo per tutti coloro che si occupano della Shoah senza esserne stati, per ragioni anagrafiche, testimoni oculari. Da Notti e nebbie di Alain Resnais a Shoah di Claude Lanzmann, i registi che si occupano dello sterminio nazista evitano, se possibile, di trasfigurare la realtà storica e anche coloro i quali, come l'Andrzej Munk della Passeggera o lo Steven Spielberg di Shindler's List, adottano uno schema più aperto all'invenzione, ricorrono sempre a materiali documentari, reali o simulati.
Il testimone parla: può e deve farlo. Chi appartiene alle generazioni successive è costretto ad affrontare un problema etico-estetico di non facile soluzione: il romanzo garantisce universalità ma può risultare incongruo, il saggio consente maggiore analisi e tuttavia allontana dal calore della rievocazione diretta, il diario rischia di far slittare l'attenzione sull'autore configurandolo come un oggetto del desiderio. Maus offre l'esempio di un'opera che, raccogliendo lo smarrimento dell'artista novecentesco, risponde con uno scarto di genere rispetto alla tradizionale norma narrativa per testimoniare il sentimento di inadeguatezza di fronte alle degenerazioni della storia.
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L'animalizzazione costituisce un gran colpo perché, nella sua affettività diffusa, permette di superare, dentro l'orizzonte favolistico, le nostre incrostazioni mentali (il nazista, l'ebreo, le baracche, gli strumenti dello sterminio, i treni). Il risultato, teso a favorire un proficuo straniamento percettivo, diventa clamoroso nel secondo volume, E qui sono cominciati i miei guai, dove Art, disegnando se stesso al lavoro con la matita sul foglio, si rappresenta con la maschera del topo applicata al viso. Anche i giornalisti che gli rivolgono le interviste, dopo il successo di Maus, hanno la medesima maschera: il tedesco compare di nuovo con quella del gatto, l'israeliano con quella del topo, l'americana con quella del cane. Di fronte a loro Art sembra ridiventare bambino, come quando incontra Pavel, lo psicanalista, altro reduce dai lager, il quale lo informa che i sopravvissuti non sono necessariamente i migliori: una riflessione degna del Primo Levi dei Sommersi e i salvati. Questo mettere allo scoperto i propri ingranaggi, postula un lettore-sveglio, in stile brechtiano, incapace di addormentarsi nel testo, lucido nella volontà razionale tesa a distinguere e capire, senza accontentarsi di facili risposte univoche.
Nella seconda parte, divisa in cinque capitoli (Mauschwitz, Auschwitz (Il tempo vola), E qui sono cominciati i miei guai, Salvi, La seconda luna di miele), Vladek, pungolato da Art, racconta come fece a uscir vivo da Auschwitz: lo salvò la conoscenza della lingua inglese. Impartendo lezioni al suo kapò, riesce a ottenere razioni di cibo supplementari che gli consentono di sfuggire alle temibili selezioni. In seguito lavora come stagnaio, sotto il comando di Yidl, ebreo comunista russo: in tale veste ottiene di poter vedere, grazie a Mancie, un'ebrea ungherese, l'amata Anja, alla quale regala la quantità di cibo sufficiente per non farla morire di fame.
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Vladek dimostra di essere intraprendente: per evitare il cosiddetto "lavoro sporco", cioè faticoso al punto da minare la salute di chi lo compie, impara il mestiere del calzolaio osservando con attenzione l'attività di un vero artigiano. Inventa cento stratagemmi, imperniati su scambi di oggetti: tre sigarette valgono una pagnotta di pane, con duecento si ottiene una bottiglia di vodka. Verso la fine della guerra il protagonista di Maus partecipa alle marce della morte, s'ammala di tifo, guarisce e, da individuo finalmente libero, riceve ospitalità in una casa occupata dai soldati americani.
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Art, nel raccogliere la preziosa testimonianza, dimostra una grande onestà intellettuale perché non tralascia di illustrare, in modo talvolta impietoso, le tristi fragilità del vecchio reduce, ossessionato dal denaro e quindi, a un certo punto, abbandonato, seppure provvisoriamente, da Mala che non sopporta la sua taccagneria. Art assiste al progressivo declino psicofisico dell'anziano genitore: lo accompagna, insieme a sua moglie François, a restituire al supermercato una scatola di cibo parzialmente consumata; apprende con raccapriccio dell'abitudine paterna di non sprecare fiammiferi lasciando aperto il gas offerto gratuitamente dal condominio; resta sconcertato nel constatare il razzismo di Vladek contro i neri americani, da lui chiamati, con tono spregiativo, Shvartser: ma tali magagne non fanno che accrescere la credibilità del vecchio.
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Di fronte ai dubbi del marito, la saggia François lo consola dicendo: "Nessuno è normale." Tantomeno, aggiungiamo noi, può esserlo chi ha avuto un'esperienza come quella di Vladek, i cui morti sembrano continuare a vivere alle sue spalle, fantasmatiche presenze ancora in grado di orientarne il cammino: non a caso il vecchio ebreo, dopo aver rievocato al microfono del registratore il momento in cui ritrovò Anja, saluta Art per l'ultima volta chiamandolo con il nome di Richieu, il figlio scomparso a 5 anni.
In Maus i luoghi assumono un'importanza decisiva: Rogo Park, Sisnowiec, Bielsko, Auschwitz, Birkenau, i Catskill nel New Yersey, Miami in Florida. Mappe e manuali sono parte integrante del testo. Conteggi, schemi, ricapitolazioni, schizzi illustrativi: tutto ciò costituisce la trama espressiva dell'opera. L'autore sembra ossessionato dalla precisazione toponomastica, dagli elenchi di date, dai nomi propri: la sua affabulazione sarebbe inconcepibile senza il corredo di note e appunti che entrano nella storia quali elementi essenziali. Chiunque conosca la bibliografia specialistica capisce subito che la fonte è assolutamente reale. Le cronache che possediamo sulla Shoah confermano il racconto del sopravvissuto, fin nei minimi particolari. Tutto è autentico: le solidarietà e gli egoismi all'interno delle baracche, i procedimenti tecnici dello sterminio industriale, l'assoluta libertà dei carnefici, il crudele legalismo tedesco, gli atti gratuiti. Questo cartoonist possiede l'acribia dello storico e la perspicacia dello scrittore.
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E' come se Art Spiegelman volesse toccare con mano le cose. Ecco la ragione per cui sceglie la forma autobiografica: non a causa di una volontà disvelatrice (in fondo non si scopre più di tanto), ma perché gli eventi che ha visto coi suoi occhi (il racconto di Vladek) sono gli unici che può illudersi di certificare. Tale gesto di accertamento spasmodico, a rifletterci bene, non risulta teso a una verifica oggettiva. Spiegelman è tutt'altro che ingenuo: egli potrebbe anche sottoscrivere l'affermazione, tipicamente moderna, secondo cui un fatto, al di là della sua flagranza, si riduce alla visione di chi lo riporta. La verità profonda di questo fumetto, che sommuove la nostra percezione romanzesca, non risiede negli eventi, ma nella tensione conoscitiva che spinge l'autore, e noi tutti, verso di essi. Ad Art Spiegelman non basta sapere cosa è stato Auschwitz. E neppure il motivo del suicidio di sua madre. Egli, nato tre anni dopo la fine della guerra, nel fumo appena dissolto delle macerie, intende scoprire il modo in cui tutto ciò lo riguarda. Maus è un racconto sulla vita nell'istante in cui questa passa dal padre al figlio attraverso gli insondabili mutamenti che un complesso coacervo storico-biologico determina. Forse la risposta alla domanda che Art rivolge a stesso si trova nel denso prologo posto all'inizio del primo volume.
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Rogo Park, estate del 1958. Il futuro cartoonist aveva dieci o undici anni e stava pattinando insieme a Howie e Steve. "Chi arriva ultimo a scuola è uno scemo", esclamano i ragazzi in coro prima di scattare verso il traguardo. Ad Art, lanciato nella frenetica rincorsa, si sgancia un pattino che lo fa precipitare a terra: è lui lo scemo. Il topino torna a casa piagnucolando e si confida al papà impegnato in un lavoro di falegnameria. "I miei amici mi hanno lasciato qui." Vladek smette di segare e lo guarda fisso negli occhi: "Amici? Se chiudi loro insieme in stanza senza cibo per una settimana, allora tu vedi cosa è amici" leggiamo nella splendida traduzione di Cristina Previtali.
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A quel tempo Art era troppo piccolo per comprendere l'amara considerazione del padre, ma probabilmente la battuta gli è rimasta dentro come una spina nel cuore. Ponendola in esergo al suo capolavoro deve aver detto a se stesso: ecco in quale modo la Shoah mi riguarda. Il disincanto della maturità gli ha fatto distillare nella matita il sentimento di compassione nei confronti della specie umana che accende e tiene vivo il fuoco segreto di Maus.
Eraldo Affinati. Compagni segreti. Storie di viaggi, bombe e scrittori. Fandango, 2006